Linguaggio e disabilità: perché è importante scegliere bene le parole.


“Quando ricercherete informazioni riguardanti la disabilità e i suoi diritti, potrete trovare diversi termini che non vi sembreranno consoni ed appropriati, come handicappato o invalido, nonostante da diversi anni si stia sensibilizzando anche la normativa legale e giuridica internazionale verso termini più inclusivi.”
Così si concludeva lo scorso articolo pubblicato sul portale Family360 LaSpezia “legge 104, infanzia e disabilità: tutto quello che devi sapere”.

In questo articolo tratterò di terminologia in relazione alle persone con disabilità, non al fine di diventare tutti più politically correct, ma di riflettere sul nostro modo di sentire e comportarci in relazione alla disabilità e quindi in relazione al linguaggio.

Mi ispiro ad un post di Carmen Innocenti, psicologa perinatale e insegnante hypnobirthing ©️ di mondoperinatale, mamma per adozione e carissima amica, che ha recentemente riflettuto sul tema del linguaggio scrivendo:

“Si parla tanto di linguaggio, di quali termini sia giusto utilizzare per riferirsi a persone, relazioni, individui, con accoglienza, senza pregiudizio e in maniera corretta.
Penso che scegliere bene le parole sia importante e rappresenti la cura e l’attenzione che si ha per i vissuti altrui. Ma credo anche che a ben parlare ci si arriva dal ben pensare. E che al ben pensare ci si arriva attraverso il ben sentire.
Insomma, questo è il punto di partenza, mentre la parola, il linguaggio, sono il punto di arrivo, o meglio la forma che prendono per esprimersi i buoni sentimenti. E per avere buoni sentimenti bisogna anche avere buone percezioni.
Non basta decidere quali termini vanno bene o meno perché automaticamente si diventi accoglienti, comprensivi e in definitiva umani. Al limite usare le “giuste” parole ci rende più politically correct. Corretti dal punto di vista politico, sociale, convenzionale. Stiamo costruendo nuove convenzioni, ma non sono sicura si stia costruendo un modo di sentire, e quindi di comportarci, che sia più umano e “naturale”.

Le parole sono finestre (oppure muri). Per citare un famoso libro di Bertram Rosemberg Mashall, padre della comunicazione non violenta. In tema di disabilità le parole scelte riflettono un setting mentale, un’ignoranza o una superficialità, ma anche una paura.

Poichè la lingua è lo specchio della società in movimento e riflette i suoi cambiamenti, è interessante ripercorrere un po’ le tappe della terminologia.

Sino a non molto tempo fa era normale usare il termine handicap, handicappato, portatore di handicap.
Sai da dove arriva questo termine? E’ di origine inglese: hand-in-cap (“mano nel berretto”) era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. E’ poi passato in uso alla corsa ippica, che prevedeva un livellamento delle maggiori o minori abilità dei concorrenti tramite un sistema di vantaggi per i peggiori e svantaggi per i migliori.
Agli inizi del Novecento la parola è stata adoperata in riferimento alle persone con disabilità; in Italia negli anni 70’ lo ritroviamo utilizzata soprattutto nel mondo della scuola.


Dobbiamo attendere sino al 2001, per vedere bandita questa parola dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ritenuta avere una connotazione negativa, e sostituita con quella di persona che sperimenta difficoltà nella vita sociale, spostando quindi l’accento dal deficit al contesto sociale.
La vera svolta si ha nel dicembre 2006, quando le Nazioni Unite votano la Convenzione per i diritti delle persone con disabilità, che pone al centro dell’attenzione la persona. Poichè la disabilità è una caratteristica peculiare, temporanea o permanente, ma non è il tutto, il disabile diventa persona con disabilità. Metto al centro la persona, la riconosco tale e poi metto l’attributo. La Convenzione è stata ratificata dall’Italia nel febbraio del 2009 e dall’Unione europea nel dicembre del 2010.


Nonostante questa evoluzione, devo ricordare che l’accertamento della condizione di disabilità in Italia è ancora assegnato alla “Commissione invalidi” e si definisce con un “Certificato di invalidità” e questo documento è ancora l’unica vera carta di identità della persona con disabilità, che gli permette di dialogare con le istituzioni pubbliche socio sanitarie e con la società (scuola, lavoro) per ottenere i diritti spettanti. Ma questo è l’ambito medico/giuridico, per tornare al linguaggio della società vorrei citare:
“Le parole sono strumenti delicati, magici, potenti e possono divenire pericolose soprattutto quando il loro uso impreciso ed equivoco costituisce lo specchio di un temuto riferimento a fenomeni che nella mentalità comune esprimono la diversità che si vuole esorcizzare” (Corazzieri e L’Imperio, 1994, pag. 37).
Un esempio è l’espressione politicamente corretta diversamente abile: il neologismo, di derivazione statunitense (differently abled), che ha generato ulteriori espressioni come diversabile o diverseabilità nasce dalla necessità di sostituire il termine handicappato, di sottolineare la capacità, anche in presenza di una menomazione importante, di produrre, realizzare, essere competitivi. L’espressione riduce l’individuo al deficit sotto la maschera del suo immaginario superamento e non rappresenta correttamente le eterogenee condizioni di disabilità in quanto non è sempre possibile attribuire una diversa abilità a tutti e pretende di conferire un connotato positivo anche alle situazioni più gravi, non considerando la diversità nella diversità (Canevaro, 2006).


Dalla ricerca di nuovi termini, animata dal bisogno di rimuovere spesso ciò che si teme, sono nati termini come non udente, non vedente, non deambulante in sostituzione di sordo, cieco, persona con disabilità motoria. Il giornalista Franco Bomprezzi, autore di articoli attenti alle questioni linguistiche nel blog InVisibili sul Corriere.it, attribuisce a termini con non udente, non vedente il potere di sottolineare una mancanza che invece si vorrebbe mascherare, riducendo la persona a quello che non ha. Utlilizzare il termine non vedente è come il sottolineare da parte dei vedenti chi è altro da loro.
Chi scrive ha una figlia che è nata sorda da entrambe le orecchie.
Mia figlia non è “non udente”, è sorda. Gli udenti che la consideriamo non udente vogliono sottolinearne il suo deficit, la sua mancanza rispetto alla norma. Quando leggo sui referti “Paziente con sordità profonda ben compensata con gli impianti cocleari in uso” non mi sento offesa, umiliata, tantomeno lo percepisco nei confronti di mia figlia. E’ un dato di fatto.


Che cosa si vuole esorcizzare allora? Come ci sentiamo quando siamo con una persona con disabilità? Cosa ci fa paura? Realizzare forse che la disabilità non è una malattia, ma una condizione che potrebbe capitare o essere capitata a noi? Ai nostri figli?
Credo che dovremmo essere onesti in primis con noi stessi, per sentire se nell’esprimerci siamo mossi da una visione pietistica/compassionevole, o un’altra eroica/ispirazionale. Recentemente ho letto “Ai minori con abilità speciali verrà assegnato uno specifico educatore che si occuperà del sostegno per l’arco della mattinata”. Da questa frase sembra esistano minori che esercitino la magia!
Più verosimilmente esistono minori con una disabilità che sono innanzitutto dei bambini e ragazzi e così dovrebbero essere considerati. Ma se noi in primis non li consideriamo tali, la parola giusta non ci uscirà, non sapremo sceglierla.

E.O.